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LO SGUGHI - NONA PUNTATA

31/08/2020

a cura di Andrea Bartalesi

Eccoci alla nona puntata:

 

°°°°°°

TUTTO ROTOLA IN BASSO
Il tempo passava e lui, lo Sgughi, aveva crisi improvvise, diceva di stare
male, soffriva di una malattia circolatoria alla quale non si poteva
rimediare, non operabile.
Mi è capitato di incontrare Andrea “dell’ombrellaro” e gli ho chiesto
cosa ricordasse dello Sgughi e se sapesse che fosse malato.
- Quand’è morto io non c’ero, ero a Milano. Me lo disse Odo che lo
avevano trovato morto di notte. Io ci andavo spesso insieme, sì, facevo
anche lo zeffiro, mi dava dieci mila lire, guadagnavo qualcosa. A
volte ci si fermava a mangiare ma tutto un tratto diceva che si sentiva
male, a volte si faceva una puntura da sé nella chiappa. Non so cosa
avesse ma stava sempre più male. Sì, giocava anche a carte e al biliardo,
non aveva paura di niente. Ma non sapeva fare. Non aveva più
soldi. Lui era un tifoso di Saronni. Una volta scommise otto milioni,
allora c’era la lira, contro un gruppo di persone che avevo trovato io.
Noi puntavamo Hinault, lui Saronni. Vinse Hinault e ricordo che io ci
guadagnai diversi soldi. -
Non so quanto i numeri siano veri perché chi mi ha raccontato la notizia,
è noto per spararle grosse, come Gabello, suo fratello, morto un po’
di tempo fa. Il loro nonno era uomo che lavorava nel circo e un giorno
decise di smettere con quella vita vagabonda, mise la sua carrozza,
forse trainata da un cavallo, nel campo fra il paese e il cimitero. io ricordo
sul tetto un comignolo di latta. Abitò lì fino a che visse facendo
lavoretti come riparare gli ombrelli (da qui ombrellaro) o mettere toppe
ai paioli. Il figlio invece, sposandosi, andò ad abitare in una casa in
muratura.

Certo l’immagine di Ugo, un uomo sofferente e allo sbando, è lontana
dal giovane ragazzo che battagliava sulle salite e forse la stessa voglia
di essere primo fu quella che lo portò alla perdizione.
Porcari, uno dei “100 Comuni della Piccola Grande Italia”, era un paese
di scommesse.
Parlo con Antonio Lunardi, figlio di Giovanna Dell’Aringa. Andiamo insieme
a parlare con sua madre, è sempre una festa quando ci incontriamo.
Parliamo dello Sgughi, non ricorda niente di particolare, nemmeno
dei fuochi. Dice che suo zio Mario lo seguiva, era un suo ammiratore.
Mario Dell’Aringa, uno della famiglia di “Sonno”, fratello di Luigi, di
Pietro (padre di Giovanna, di Anna e marito di Bina). Poi c’era Angela
che sposò il Nannini, quello della Lancia, zio di Eugenio e Romano, e
l’altra sorella Maria.
Mario abitava nel palazzo del Poggi, aveva sposato la maestra Modesta
e, non avendo figli, adottarono una nipote di Modesta, Vera (anche lei
fu una maestra molto carina).
Ricordo l’odore che c’era già per le scale del palazzo, particolare, e così
fino all’ingresso di Mario al primo piano. Mario quando la mia famiglia
venne ad abitare a Porcari, finita la guerra, dette una parvenza di lavoro
a mio padre. Vendevano il lucido per le scarpe, una cassetta, sulla
bicicletta...
- Certo, zio Mario era un inventivo, magari poi non aveva costanza,
ma era uno dalle mani d’oro e dall’invenzione facile. Io (continua a
dire Giovanna) quando si rompeva un giocattolo o qualcosa in casa
dicevo diamolo a Mario, ci pensa lui. Aveva anche una lavorazione
davanti le Suore Dorotee di manopole in osso per le biciclette... Lui era
un inventore e un innovativo. Per noi è rimasto anche per la “Brandina”
che lui faceva, con la mano sinistra, il pugno sinistro, che faceva
spuntare da una porta, con due occhi disegnati fra le dita e la bocca
che si apriva, ed era difficile perché la faceva aprire muovendo il mignolo
e l’anulare. Era una sorta di ventriloquo con pupazzo... a volte
metteva una stoffa a mo’ di pezzuola sulla testa e ci faceva ridere... -

HO INCONTRATO IVANO FANINI
Sono seduto davanti a Ivano, “il Fanini”. Mi ha detto “accomodati” e io
sono qui a osservare questa icona del ciclismo nazionale e mi annoto
che il tempo, passando, ci ha reso i volti come fossero quelli dei padri di
noi stessi. Lui è più giovane di me, ma questa constatazione ci unisce.
È un po’ ingrassato. Sta scrivendo fitto su un foglio grande e lo fa fino
in fondo, in un momento in cui scriviamo sempre meno con la penna
e sempre più con la tastiera di un computer. Meticoloso, scrive svelto
e sembra che abbia da mettere sulla carta un suo pensiero fugace ma
importante. Non si distrae. Mi piace questo modo di scrivere. Mi guardo
intorno, in questo bel salone e tutte le pareti sono tappezzate di foto,
con la loro cornice, cimeli di un mondo ciclistico. C’è persino una maglia
a “pois”, simbolo del leader della speciale classifica degli scalatori
al Tour de France. Un salone pieno di ciclismo, dove se chiudi gli occhi,
sicuramente senti il ronzio di mille ruote che girano, lo scatto di un
cambio Campagnolo, e gli incitamenti della gente comune, come me, al
bordo della strada. Un salone pieno di ciclismo dove vendono auto.
Ivano spilla il suo foglio, scritto in tutte le sue parti, ad altri che erano
su una sedia. Mi guarda e riconosco i suoi occhi e il suo sorriso, i suoi
capelli bianchi precoci.
«Vorrei raccontare la vita dello Sgughi - gli dico - e non posso farlo se
non coinvolgendo suo zio Ivano, il mitico rivale. Ho raccolto tanti aneddoti,
tante storie e testimonianze che non avrei mai creduto. Vengo da
lei, doverosamente e con la curiosità di sentire quello che può dirmi.»
- So dello Sgughi quello che mi hanno raccontato gli altri, io a quel
tempo non c’ero

Gli dico di aver letto quello che ha scritto Il Tirreno al momento della
morte del mitico Fanini e che mi premeva fargli una domanda: quale
scorrettezza poteva aver fatto per essere squalificato in quella corsa
sulle Mura di Lucca, tanto da essere disgustato ed emigrare in Argentina.
- Picchiò un giudice di gara che lo aveva messo secondo e invece era
convinto di aver vinto, anche se per pochi centimetri. Ne seguì una
discussione e mio zio gli dette un pugno. Da lì la squalifica. Andò in
Argentina perché allora tutti emigravano in Argentina. -
Mio fratello nel 1952 andò in Australia ed io ero convinto che tutti
andassero in Australia. Agostino detto Pipetta invece andò in Brasile.
Prima di allora quando uno andava all’estero, dicevano: ”Si è perso in
Francia”.
«Dopo quanti anni è tornato?»
- È tornato diverse volte a trovarci, ma mai definitivamente. Si era
fatto una famiglia, aveva il suo commercio, una squadra ciclistica per
la sua passione. Tornava a trovarci, ma poi il suo mondo era l’Argentina.
Era sempre stato un grande mercante. E appena arrivato nel suo
nuovo paese, diventò un importante commerciante di vini. Vendeva il
Vino Fanini, che produceva in Argentina. Il ciclismo in quel paese era
sconosciuto e lui lo inventò, lo fece conoscere, coinvolse tutto e tutti.
Io ci andai in giro di nozze... -
Si alza e mi mette davanti a una foto, dove subito riconosco lui, giovane,
con i pantaloni a zampa d’elefante, i capelli lunghi, magro, quasi
un folletto, somigliava a Bob Dilan, poteva cantare con gli Equipe 84, o
con Branduardi, invece è accanto a una bella donna con un vestito che
sembra sudamericano, mora (mi viene da pensare sia un’argentina) ma
lui intanto continua...
- Questo sono io con mia moglie, ero in giro di nozze, 1976, questo è
mio zio e questi due, sono i migliori ciclisti della sua squadra e dell’Argentina.
Ovviamente solo io potevo fare quello che feci: portai con me,
subito, nel ritorno di quel viaggio di nozze, i due ciclisti argentini.
E ti dirò che la mia decisione mi dette molti problemi anche logistici
perché era in inverno e il ciclismo era fermo. Lo capisci? Tornai dal
viaggio di nozze con questi due marcantoni. Così cominciai la mia

 

collaborazione con l’Argentina. Ho fatto venire tanti giovani e gli ho
fatto correre il Giro d’Italia.-
«Bella questa cosa» mi viene spontaneamente.
- Per diverso tempo sono stato un dirigente del ciclismo argentino.
Collaboravo con mio zio. Io e lui eravamo il “ciclismo argentino”. -
«Vedi Ivano - scivolo sul “tu” come mi succede quando mi piace la
persona con la quale parlo e vorrei esserne amico - quante cose saltano
fuori se solo ci mettiamo a parlare e a chiedere? In questo poco
tempo, con lo Sgughi, con la sua vita sciagurata, le sue sfide con tuo
zio, quell’epica sull’Autostrada Firenze-Mare, ho scoperto un vecchio
mondo romantico, brutto e bello. Certo se tu avessi una foto con tuo
zio e lo Sgughi insieme, sarebbe bellissimo. Una sfida che mentre nei
primi tempi sembrava vinta da Ugo, con la sua presupponenza, le sue
vittorie, poi, alla fine ha visto vincere tuo zio, che si è fatto una famiglia,
una posizione e una grande stima in Argentina, ha fatto correre
tanti nuovi ragazzi e ha onorato il nome dell’Italia. Ugo invece, travolto
dalle sue stesse amicizie, ha avuto una fine ingloriosa, anticipata da
un suicidio dovuto anche a una malattia incurabile.»
- Hai ragione, era sempre circondato da certi ceffi che poi, con il tempo,
l’hanno portato su strade sbagliate. Ogni tanto passava da me, lo
vedevo, lo salutavo, ma credo che non abbia mai fatto soldi, nemmeno
con il gioco dei campanelli. -
È interrotto dal telefono, si alza, va alla parete di centro, stacca un quadretto,
finisce la telefonata, viene da me:
- Guarda se riconosci chi sono. -
Due corridori, uno piccolo di statura, l’altro, alto, che somiglia a Ugo.
La data 1947.
Resto indeciso. Non ho mai visto il Fanini, certo mi sembra strano fosse
così minuto e Ugo, se questo è lo Sgughi come sembra, non lo ricordavo
così alto.
- Questo è mio zio. -
Il quadretto ha la foto tratta da un giornale, sotto riporta:
“A sinistra Ivano Fanini giovanissimo nel 1946, zio di Ivano e fratello
di Lorenzo, quest’ultimo padre dei fratelli Fanini e fondatore del G.S.

 

Fanini nel 1948. Ivano per primo con le sue vittorie ha portato la passione
smodata per il ciclismo della dinastia Fanini. Nella foto lo vediamo
assieme al suo rivale di allora Del Carlo Ugo detto lo “sgughi”.
Poco dopo Ivano si trasferì in Argentina a seguito di una squalifica di
sei mesi inflitta da un giudice di gara cui dette uno schiaffo per essere
stato messo secondo in una vittoria allo sprint al centimetro (gara
sulle mura urbane di Lucca), Oggi è affermato industriale e presidente
di una squadra Fanini a Mendoza in Argentina.”
Si alza ancora, va in un cassetto, prende un libro nuovo, si mette alla
scrivania, mi chiede il mio nome e scrive. Penso a una dedica, semplice,
invece:
“Ad Andrea Bartalesi, un grande per tutto, ma in particolare per me,
per l’idea di ricordare le battaglie storiche Fanini - Sgughi, grazie, con

 stima, Ivano Fanini”.


Resto imbarazzato e borbotto qualcosa, ma lui ha gli occhi felici e l’entusiasmo
che lo distingue:
- Devi capire che da quelle sfide, da quelle volate, da mio zio e dallo
Sgughi è nato tutto questo... -
...si guarda in giro, oltre a queste vetrate, lui sta guardando la sua vita,
i suoi successi, di quando giovanetto era salito in bicicletta e portando
il nome famoso dello zio aveva vinto. Poi il suo giro di nozze, i corridori
che aveva fatto venire, la sua squadra Fanini che è rimasta sempre la
stessa dal 1948. I personaggi incontrati, le soddisfazioni, tutto, il Papa,
i massimi personaggi del ciclismo, perché lui ne era e ne è un “grandissimo”.
Rivede tutte le sue battaglie perché lui è un tipo “scomodo”, non
si accoda al gregge delle pecore. Io guardo la sua espressione e questo
mi fa capire lo spessore del personaggio.
Mi verrebbe voglia di dirgli: “Anch’io ho una bici Fanini, telaio Alan,
cambio Campagnolo, una bici che comprai usata dopo che aveva fatto
un anno di campionato allievi nella tua squadra... l’ho usata poco,
sono sempre stato un podista, ma, quando ci salivo, mi sembrava di
volare.”
«Amelia hai conosciuto il Fanini?»
- Sono andata in Argentina per conoscere i miei suoceri e ho incontrato
il Fanini Ivano, mi raccontò che i primi tempi del suo arrivo
commerciava con gli indios delle montagne scambiando prodotti
dell’artigianato con cose più moderne e che impazzivano per quelle
Madonnine che si vedevano di notte...

 

(Andrea Bartalesi)

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