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IL QUERCIONE racconto di Andrea Bartalesi

21/09/2020

a cura di Andrea Bartalesi

Questo è il mio primo racconto. Ci voleva il Quercione con le suo storie a farmi decidere nel 2004 a scrivere e rendere corposi i grilli che mi svolazzavano in testa.

Lo pubblico in poche puntate.

 

IL QUERCIONE
STORIA DI AMORE E DI MAGIE
“Il fatto sta così e la ragione è quella” così cominciò il racconto Nonzia. Aveva
posato le sue stanche ossa su un tronco di un albero caduto al limitare del
bosco. Con il dorso della mano aveva cancellato le due tracce di bava
biancastra che le scorrevano ai lati della bocca. Erano passati ormai gli anni
dell’arroganza fisica e della frenesia senza limiti: doveva concedersi delle
pause, durante le quali il fiato ritornava normale ed anche il suo cuore
riprendeva i battiti soliti. Perché, per quanto potesse sembrare strano, Nonzia
aveva un cuore. Quelle notti di luna piena, così attese, erano diventate
gravose, ma i suoi istinti primordiali non le permettevano defezioni. Si
trovava con le compagne in questa radura sotto il Colle delle Belledonne dove
una quercia, pur giovane ancora, prometteva assai bene. I rami lunghissimi
che correvano paralleli al terreno, quella forma già torchiata e scheletrica,
davano da credere che sarebbe diventata un bel quercione. Poi Nonzia in quel
luogo ci sì “sentiva”. Non aveva mai capito perché, ma da sempre ci sì
“sentiva”. Ma non doveva essere una sensazione privata perché i neri gatti
della sventura venivano la notte a percorrere l’immaginario percorso di quei
rami e poi si posavano immobili tanto da sembrare parte dell’albero, un
contorto ramo in più, quasi immaginari ed improbabili frutti della quercia alla
bianca luce della luna. E i gufi spalancavano i loro occhi sorpresi e
sembravano meravigliati di tutto questo via vai in quello che sapevano essere
il loro albero. Veramente in quelle serate di luna piena si sentivano un po’
fuori posto, qualcuno usurpava il loro possesso: dovevano cercare rifugio giù
nel canalone al riparo dalle grida e dal frastuono che queste matte facevano.
Dicevano “matte” ma era un aggettivo inteso nelle abitudini locali: ormai si
erano abituati ai balli sfrenati e questi esseri strani, neri, ossuti, quasi ombre
lunghe, così paurosi (a dir poco) ormai facevano parte delle abitudini della
loro vita di poveri uccelli notturni. I gufi non si sentivano sfortunati, anzi non
riuscivano a capire come facevano certi esseri, fra questi gli uomini crudeli e
senza cuore, a vivere svegli di giorno, a girare per il mondo in quella luce
accecante, impossibile.
Quando poi scendevano dalle vicine Pizzorne i lupi mannari e cominciavano
ad urlare alla luna tutti i loro improperi, tutta la cattiveria accumulata in
giorni di solitudine e di vita normale, era proprio uno spettacolo da non
mancare: anche le penne del loro collo così poste a raggiera, si arruffavano
tutte e passavano giorni prima che riprendessero la loro forma normale.
Quegli ululati entravano dal becco dentro il loro corpo e si sentivano così
sconvolti che la coda cominciava a vibrare e vibrava, vibrava e, a volte, per
colpa di questa vibrazione, gli si aprivano gli orifizi e lasciavano andare un
liquido biancastro. Questo non era niente: guai se colpivano uno di quegli
esseri neri e sghignazzanti che saltavano da un ramo all’altro: c’era il rischio
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di fare proprio una brutta fine. Ma anche i gatti te li raccomando. Una volta
uno di loro, conosciuto con il nome di Carbone, aveva ricevuto, ma proprio in
fondo alla coda, uno schizzetto dell’effetto di una di quelle vibrazioni che
dicevamo sopra e aveva fatto un putiferio. Pensare che se lo vedevi il giorno
sembrava un bel batuffolone nero e come si strusciava lungo le gambe della
figlia del suo padrone! Anche sul fatto del “padrone” ci sarebbe da discutere
perché lui, Carbone (come tutti i gatti della terra), padroni non ne aveva.
Libero e indipendente, padrone del proprio vivere, commediante nato, era
l’emblema stesso della falsità. Carpiva agli uomini, così crudeli ed allo stesso
tempo tanto stupidi, la loro buonafede. Questo dava un’ulteriore idea di
quanto il gatto sia commediante: capiva chi aveva bisogno di affetto, chi per
mille motivi si sentiva trascurato, solo, indesiderato e lui, il gatto, il felino
addomesticato, faceva le fusa, si lasciava arruffare il pelo, si faceva toccare la
coda, ma guai se provavano a bagnarlo, a lavarlo; lui si leccava e
assolutamente non sopportava l’acqua. Poi ogni tanto, di notte, spariva per i
fatti suoi, per i suoi bisogni erotici sentimentali, e non solo. I gatti neri della
sventura sentivano nell’aria il richiamo delle notti di plenilunio e niente li
fermava: sarebbero stati immobili spettatori di danze sataniche, di eventi
occulti, di nere magie, di presenze diaboliche che non rispondevano ai cinque
sensi dell’uomo. Anzi sconvolgevano tutti i sensi dell’uomo, turbinavano
nell’aria fino a diventare qualcosa di indefinibile, indecifrabile, di paura, di
sconvolgimento. Durante questi attimi le ombre diventavano lunghe, sempre
più lunghe, si materializzavano tanto che non sapevi più dove era realtà e
dove cominciava la finzione, l’occulto. Dove era realtà e dove cominciava il
mondo satanico degli angeli neri. L’aria diventava diafana, trasparente, ma,
d’un tratto, l’odore di zolfo diventava opprimente e ti prendeva alla gola, ti
minacciava il respiro, ti atterriva. Poi, con il tempo, cercavi queste sensazioni
così forti, tanto da non poterne fare a meno e arrivavi a queste feste in
anticipo sull’orario. Ma lui, gatto nero della sventura, era solo spettatore
accettato perché mai avrebbe avuto il coraggio di aprire bocca ed anche i
miagolii, che a volte gli sfuggivano, diventavano una sorta di polpetta amara,
piena di aria e di suoni strazianti, che, arrivata dentro lo stomaco, dava una
scossa alle orecchie facendole drizzare, quasi volessero uscire dalla pelle del
cranio.

 


???


Nonzia spostò il peso delle sue ossa da una natica all’altra cercando di
trovare quella sensazione di pace e di benessere che tanto desiderava: sapeva
però che tutti i movimenti erano inutili e che niente sarebbe cambiato. Aveva
interrotto le danze, i salti da un ramo all’altro e, lasciate le compagne di mille
notti, si era portata dietro la giovane Angiolina. Era la strega più giovane di
quel gruppo che si ritrovava sotto il Colle delle Belledonne. A dire il vero
sembrava quasi la figlia di Nonzia, se figli avesse potuto avere, tanto le due
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erano legate ed unite. Nonzia era stata la prima ad accoglierla, a insegnarle a
sfogare i bassi istinti che la magia aveva messo dentro di lei, a evitare quelle
brutte cose che la vita presentava a queste lunghe ombre nere.
“Il fatto sta così e la ragione è quella, cara Angiolina” ricominciò Nonzia ”Ti
devo parlare, ti devo raccontare tante cose, il tempo passa… lo so che sei una
brava guagliona, ma il tempo passa e tu non hai tanto tempo..”
Nonzia quando parlava tradiva le sue origini: era nata sotto l’Epomeo, in una
grotta nera e solforosa, dove ancora si respirava l’odore vulcanico, sopra a
Fango piccolo centro ischitano. La sua infanzia fra quei declivi così ispidi con
tutto intorno un blu intenso e … si era accorta che qualcosa non andava
quando incontrava quei piccoli conigli selvatici che facevano subito brillare la
loro bianca coda e si gettavano impauriti in ogni dove pur di fuggire da lei.
Era cresciuta nell’isola e vi aveva abitato per tantissimi anni: si trovava
anche bene e si lanciava fra i rami di quei pinastri marini con abili manovre.
Ma un giorno aveva capito che non poteva rimanere lì in un pezzetto di terra
così limitata: aveva cominciato a smaniare, voleva partire, uscire, sapere.
Aveva aspettato l’occasione buona al porto e …. Eccola verso nord portando
con sé la magia fantastica della tradizione e il sapore di salsedine e di erba
selvatica e di pini e di zolfo e tanta nostalgia della sua terra.
“Ti devo raccontare una storia, la tua storia e come ti sei trovata qua. So che
non è facile raccontarti tutto e poi io sono sì una brava novelliera, sono
capace di inventarmi storie fantastiche, ma mi trovo in difficoltà quando devo
raccontare la verità. Ti devo raccontare tutto prima che questa luna, così
piena, sparisca dietro alla luce accecante del sole che nasce lassù sopra il
colle. E non mi guardare così. I tuoi occhi mi mandano in paradiso e ti
immagini io, strega, nera, ossuta, lunga come la mia ombra che a volte mi
anticipa invece di seguirmi, come potrei stare in paradiso? E insomma non mi
far perdere il filo del discorso altrimenti addio alla tua storia, addio ad
Angiolina. “
La giovane, veramente, aveva solo aperto un po’ di più gli occhi e non era poi
neanche tanto meravigliata perché sai quante volte Nonzia l’aveva chiamata
da parte e aveva cominciato il discorso proprio come quella notte per poi
finire in lunghi rigiri di parole e concetti sconnessi. Il tutto poi finiva con un
abbraccio e una corsa ancora più frenetica fra i rami della quercia.


?

 

 “A te gli streghi non sono mai piaciuti” cominciò Nonzia “e sinceramente
neanche a me. Sono esseri tristi. Dalle mie parti non c’erano. Quando sono
arrivata qua e li ho conosciuti, fin dalle prime volte, mi hanno fatto paura.
Figurati: a me, Nonzia, onorata strega che viene dal meridione, io che ho
spaventato perfino.. va bene, ma non divaghiamo che viene giorno. Dunque tu
non hai mai potuto soffrire gli streghi. La tua sventura è cominciata per colpa
di uno di quegli esseri strani, lunghi e muti. Tuo padre io non l’ ho mai

conosciuto e da anni non so più niente di lui, ma ho saputo che si chiamava
Giovanni, ma tutti in paese dove abitava lo chiamavano Nanni. Faceva il
legnaiolo e cuoceva il carbone, su nei boschi dell’Alpe, in Garfagnana. Avanza
tempo suonava la fisarmonica, la sera all’osteria. Doveva essere strano vedere
quelle mani nere dal carbone che si muovevano così svelte sui tasti dello
strumento. Una sera fu una bella sera, più bella del solito. I fiaschi del vino
andavano via come niente fosse e, anche se era un po’ asprigno, cominciò a
diffondersi una bella atmosfera; chi rideva, chi cantava, chi ballava. Mi
dissero anche cosa festeggiavano, ma, bimba mia, l’ ho dimenticato. Sai la
vecchiaia si fa sentire. Tuo padre di carattere era un pastacchione, ma quando
aveva bevuto gli piaceva fare un poco lo spaccone, come dicevano al mio
paese “si sparava le pose”. Il discorso, quando la serata andava a finire, cascò
su una processione di streghi che la Giulietta, una donna del paese, aveva
incontrato la mattina presto, troppo presto per andare in giro. La Giulietta, da
donna di mondo, sapeva come comportarsi e incontrando questa processione,
lunga, lunga, non finiva mai, queste figure grandi, illuminate da fioche luci
delle candele che portavano in mano, incappucciate, a testa china, silenziose
(si sentiva solo il frusciare delle foglie di castagno sotto i piedi e i rametti
secchi che si spezzavano) si era tirata indietro ed aveva pronunciato la frase
che fin da piccola le vecchie di casa le avevano insegnato: - Passo, buona
gente.- L’ultima ombra, più grande e possente delle altre, prima di scivolare
via e sparire fra i castagni, con il chiarore che spariva, come l’ultima luce la
sera, porse a Giulietta una candela. Era una candela grossa che non stava
quasi nel palmo della mano. Giulietta pensò che a ben vedere, se gli streghi
erano questi, si poteva dire che erano personcine per bene: addirittura si
erano private di una candela perché lei, Giulietta, potesse tornare a casa
senza farsi male. E così la grande paura che aveva provato piano piano si
trasformava quasi in meraviglia. Giunta a casa, la candela si spense da sola,
ma forse si era spenta con il primo chiarore dell’alba, non se n’era accorta.
Appena entrata in casa, tutta eccitata aveva appoggiato la candela sul tavolo
e si era chinata sul caminetto per accendere il fuoco perché doveva scaldare
l’acqua del paiolo, ma il fuoco non voleva accendersi. Lei, china, insisteva ma
quei rami sfrigolavano forse perché ancora non erano ben secchi. Non ne
poteva più: doveva andare dalla Maria a raccontarle l’incontro. Si drizzò e
prese la candela in mano, ma che candela strana, sembrava un braccio, no:
era proprio un braccio senza la mano e dove bruciava lo stoppino c’era .. ma
chissà cosa c’era. La Giulietta non si fermò più di tanto: con un urlo affogato
nella gola lasciò cadere la candela, cioè il braccio, insomma quell’oggetto
immondo e si precipitò fuori.
- Maria, Maria! - urlava e correva.
La Maria, che stava uscendo dall’uscio, le corse incontro. Le corse per modo di
dire perché dal suo uscio per venire sulla strada ci aveva uno scalino di pietra
tutto mangiato dal tempo e poi la stradetta era tutta ciottoli, così ignoranti
che ogni tanto, pur sapendolo, la Maria faceva degli scivoloni. Intanto
Giulietta urlava:
5- Corri, corri, vieni…. tu sapessi… un braccio…. gli streghi …sai la candela…
E tutte e due rientrarono in casa di Giulietta proprio in tempo per vedere un
gatto con il braccio, pardon la candela, in bocca che se la filava fuori e poi
verso i castagni.
La storia fece il giro delle case e per tutto il giorno davanti ai paiolo e al fumo
del camino non si parlò di altro. Il gatto così grosso, così nero, così spiritato,
così veloce non lo avevano mai visto. Ma sarà stato un gatto? Per me era il
diavolo stesso…
E appunto di questa storia si parlò la sera al circolino e sui tavoli di marmo si
rovesciava il vino per le mani un po’ malferme. Tuo padre smise la
fisarmonica e cominciò a parlare. Affermò che aveva uno zio da parte di sua
madre che una volta aveva avuto a che fare con una processione di streghi e
aveva giocato un bello scherzo a tutta la compagnia così che alla Lama non
ne avevano più sentito parlare di streghi e delle loro stregonerie. Insisteva che
anche loro avrebbero dovuto fare qualcosa per rendere più sicure le selve.
Come potevano permettere a questi esseri di girare di qua e di là a spaventare
le loro donne? E così, seduta stante e visto che nessuno voleva andare con
lui, decise di andarci solo, perché lui paura eccetera eccetera.
Affermò che ricordava lo scherzo dello zio: doveva piantare uno stecco a
forma di croce sotto il noce, o sotto la quercia, dove si ritrovavano queste
anime inquiete nelle notti buie. Aveva aggiunto che quel noce, quello grosso
laggiù nella forra, era senz’altro meta delle processioni degli streghi. Gli
venne il dubbio che lo zio avesse detto di aver piantato il suo coltellaccio nel
fusto del noce fin quasi al manico, non lo ricordava più. Lo scopo, in ogni
modo, era quello di catturare gli streghi. Non per sempre, ma per qualche
giorno, in modo che non potessero allontanarsi dalla pianta. Siccome erano
tutte persone vive, che vivevano nei paesi vicini o anche lontani, non potendo
tornare alle loro occupazioni, venivano in qualche modo scomodate o
addirittura scoperte.”
Nonzia si fermò un’attimo, ma ormai presa dal racconto, continuò:
“Tuo padre partì subito e il suo rossore per il caldo e il vino si trasformò in
rossore per il freddo e la paura. Giunto nei pressi del noce si fece cauto e il
cuore gli batteva a cento, ma che dico cento, molto di più. Ma come poteva
tornare indietro? magari il Becco, che faceva sempre il furbo, gli era venuto
dietro e ti immagini che risate per anni e anni e anni. Continuò imperterrito e
preparò con dei rami non ancora del tutto secchi, una croce e mentre cominciò
a piantarla in terra senti una voce, cento voci, ma forse era il vento, il rumore
delle foglie, o forse lo sentiva venire da dentro di sè, uscire dalla bocca oltre il
battito dei suoi denti, o forse dalle sue viscere, non lo so io e nemmeno lui,
ma sentiva:
- Nanni non farlo, Nanni, non farlo! -
Questa frase continuava, volava tutto intorno, ora vicina, ora lontana, ora
dentro i suoi orecchi, ora oltre la cresta del monte che si indovinava contro la
luna. E mentre sbalordito cercava il punto da dove veniva - Nanni non farlo -
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vide una lunga ombra uscire da un ramo basso, saltare nello spiazzo e fuggire
a gambe levate.
Avrebbe detto, se solo avesse pensato, che fosse un uomo. Ma quello era un
uomo e il Nanni ebbe subito la sensazione che fosse qualcuno che lui
conosceva. Non che fosse in grande sintonia, ma lo conosceva. Ma certo quel
modo di portare il braccio destro un po’ alto, quella macchia scura che poteva
essere la testa, tonda, tonda sì perché senza capelli. Ma quello non era il
sacrestano?”
??

 

 

La seconda puntata lunedì 28 settembre

Andrea Bartalesi