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BALTAZAR - racconto di Natale di Andrea Bartalesi

19/12/2023

a cura di Andrea Bartalesi

Ecco il racconto di Natale secondo gli insegnamenti di Dickens

E' gratis, potete leggerlo e stamparlo. Ovviamente la responsabilità e i diritti sono miei.

 

BALTAZAR

Racconto di Natale

di Andrea Bartalesi

 

 

 

1

Quelle scale mi fanno ancora male, il dolore ritorna vivido e i ricordi, che molte volte allontano da me, ricompaiono.

I fatti sembrano tornare come i cavalli danzanti di una giostra. Ma in questo caso la musica, non allegra, quasi un suono di organetto patetico, porta con sé realtà dolorose.

Quanto tempo è passato da quando salivo queste scale perché un uomo aveva un appuntamento irrinunciabile con la morte? Un anno? Forse qualcosa di meno, il bimbo che piangeva, la mamma che non sapeva come fare. Queste scale.

A me chiedevano consiglio, a me, disperato nella mia inutilità, sentimento che mi travolge ogni volta mi rendo conto di non poter fare niente, che tutto quello che io ho studiato, che tutte le esperienze che i medici del mondo hanno fatto, sono inutili. L’ineluttabilità dell’evento. Il dramma di dover constatare e assistere senza far niente, accettare impotente.

Forse ho sbagliato mestiere.

Ed ora a distanza di pochi mesi, attimi che si allungano nella disperazione, il fratello, ancora un appuntamento, ancora situazioni dove vieni gettato, all’improvviso, senza preparazione, a condividere con una famiglia un inevitabile dolore.

Certamente ho sbagliato mestiere, se questo si può chiamare mestiere. Dovrei fermarmi alla mia scrivania, davanti al mio computer, viaggiare negli spazi illusori di reti inconcepibili, scrivere ricette, mandare, demandare, come Pilato, lavarmi le mani, che colpa ne ho io?

E Luigino cosa starà facendo? Sarà cresciuto?

“Dottore cosa dirò a mio figlio? E’ così attaccato a suo padre”.

“Gli dica che è volato in cielo” risposi allora. La religione ci viene in soccorso quando il nostro logico pensiero si ferma davanti ad una pietra, in lei troviamo la speranza, scavalchiamo la materia che ci sconfigge e ci aggrappiamo allo spirito, all’eternità, alla risurrezione, quando tutti i volti passati nel mondo si guarderanno negli occhi e sentiranno la pace. O forse raggiunta la visione di Dio ci dimenticheremo di nostra madre, di nostro padre, saremo finalmente sereni in una individualità che sarà comunione nell’eternità.

“Gli dica che è volato in cielo”.

Risposi così. Cosa dovevo dire? Quale logici motivi trovare?

Risposi così, ma non lo feci per indifferenza (Dio lo sa), ma per consapevole stima di assoluta impotenza.

Io ho un padre con il quale non ho mai parlato.

Certo ho parlato con lui delle banalità e dei refrain della vita, buon giorno, come è andata oggi? Male, sono stanco, non ho più tempo per me, ai miei tempi… ai miei tempi.

Con mio padre non parlo nemmeno dei suoi bei tempi: mi irrita già il discorso, la frase iniziale, so già dove andrà a finire, è un viaggio che non mi attira.

No, non è vero. Questa è una banale scusa. Starei delle ore ad ascoltarlo, se lui mi parlasse, ma sembra che fra uomini non ci si possa lasciare andare a confidenze. Nemmeno fra padre e figlio? Questo muro di omertà è dovuto alla diffidenza o forse ad una sorta di gelosia o di timore per aver sbagliato e non doverlo riconoscere, poi, davanti al padre o al figlio secondo i casi? Non lo so. Perché non riesco ad abbracciare mio padre e a dargli un bacio grande e intimo su di una guancia? A guardarlo negli occhi e dirgli “Papà ti voglio bene”?

Quando lui voleva indirizzarmi su una strada, voleva trasmettermi le sue idee, io rifiutavo il contatto, mi sentivo imbarazzato. Ho obbedito, questo si. Posso dire di aver onorato il padre e la madre, ma di non averli amati quanto io avrei avuto voglia e bisogno di fare.

Nel momento in cui io avrei avuto bisogno di consigli e di affetto mi rendevo conto che non sarei riuscito nemmeno a mettere un braccio intorno alle sue spalle. Come potevo pretendere che lui poggiasse un braccio sulle mie? Ma lui è mio padre, perbacco, ha degli obblighi verso di me!

Magari un giorno, quando ormai sarà tardi, rimpiangerò di non avergli detto tutto quello che avrei voluto dirgli.

E stranamente ora non ho pensato a ricevere (un consiglio, un parere) ma a dare.

Certo la vita è così imprevedibile e triste. Come in queste due famiglie, due fratelli, che abitavano uno sopra l’altro e che presto non vi abiterà nessuno dei due. Cosa dire a un padre che non ha più figli?

“Ciao”

Oddio è proprio Luigino! Non è molto diverso da quando l’ho visto l’ultima volta. E ora? Come posso scappare davanti a lui? E le visite a domicilio che mi attendono e che già così, senza perdere tempo, finirei molto tardi?

Perdere tempo. Parlare con Luigino è perdere tempo?

“Ciao Luigino, che sorpresa, quanto tempo è che non ti vedo!”

“Sai dottore, mio papà è volato in cielo. Ma mi aspetta, non ora, non tanto presto, ma mi aspetta. Me lo ha detto la mamma.”

Ecco, la sua mamma mi ha dato retta. Ha dato retta ad uno stupido individuo che non ha trovato meglio di darle una risposta banale, ovvia, qualunquista.

“Certo Luigino e da lassù ti vede e tu devi fare il bravo così lui, il tuo papà, sarà contento di te.”

“Sai dottore a me piacerebbe andare a trovarlo, vorrei proprio stare un po’ con lui, venti ore, che ne dici?”.

Cosa rispondere? Niente, lo guardo triste e commosso.

“Vieni a giocare con me?”

“Luigino verrei volentieri ma ho un sacco di visite… dai, vengo, ma la tua mamma è in casa?”

“Si dottore, vieni, giochiamo con i Gormiti, sai ho anche l’isola di Gorm.”

“Luigino, Luigino, con chi stai parlando? Vieni in casa, corri” è la mamma di Luigino che si affaccia dal pianerottolo “Oh dottore, lei, venga, che piacer…, insomma so per quale motivo è venuto e quindi non è un piacere rivederla su queste scale, ma mi fa piacere rivedere lei, è stato così comprensivo, mi è stato così d’aiuto..”

D’aiuto, dice, “Gli dica che è volato in Cielo” questo è stato il mio aiuto. E suo marito è morto ed io cosa ho fatto? Niente. Gli ho prescritto le dovute medicine, le dovute analisi, le dovute cure. L’ho fatto a tempo debito, non ho niente da addebitarmi. Sono stato come dovevo essere. E cosa ho ottenuto? Suo marito è morto lo stesso.

Luigino, con la spontaneità del bambino, è sceso verso di me e mi ha preso per mano ed ora sto salendo con lui verso il suo appartamento. Stringo la mano alla mamma senza staccare la manina del bimbo che sembra non volermi più lasciare.

Sul tavolo molti piccoli personaggi in plastica, brutti come mostri, incredibile pensare di inventarne di più brutti.

Luigino sale su una sedia in ginocchio e subito la mamma corre a togliergli le scarpe avvicinandogli due piccole ciabatte.

Mi spiega che a lui piacciono i Gormiti della luce.

“Perché la luce viene dal cielo” mi dice.

“Chi te l’ha detto?” chiedo.

“Nessuno” e mi guarda da sotto in su con quegli occhi neri. Guardo la mamma, lei sorride e non dice niente.

Il bimbo mi mostra degli esseri costruiti da menti approfittatrici, li chiama per nome (che fantasia i costruttori).

Ripenso ai miei camioncini di plastica, quando mio padre mi diceva che lui da bambino ne aveva uno bellissimo, piccolo e di legno. Mi raccontava dei suoi trenini elettrici, mio padre. Non mi ha mai regalato un trenino elettrico. Sembra che siano rimasti prigionieri della sua generazione. Regali ne ho avuti tanti e più ne ricevevo e meno mi sentivo soddisfatto e più ne avrei voluti. Regali che non mi hanno saziato.

“Vedi dottore come i signori della luce combattono con i signori della terra? Vincono, sono invincibili, lassù nel cielo”.

“Quando torno a trovarti Luigino, ti porterò un regalo, un aeroplano, grande, enorme, dove tu potrai sognare di volare…” mi è venuto così senza riflettere e vedo il suo volto illuminarsi. Chissà quante volte avrà pensato ad un aeroplano. Lo chiedo, guardandola, alla mamma. Lei mi dice sottovoce: “parla sempre di un’astronave”. Certo il progresso, questi bimbi conoscono il mondo meglio di noi. Loro sognano e con la fantasia e più facile capire. Certo. L’astronave può portarti negli spazi oltre l’atmosfera, oltre il conosciuto e l’immaginato. L’astronave lo avrebbe portato da suo padre.

Arrivato in strada, salendo nella mia macchina, guardando l’agenda per vedere la prossima visita, penso che sono uscito in modo svelto, quasi fuggendo, forse sono stato scortese. Anche sua madre avrebbe bisogno di una parola di conforto, ma io non le ho detto niente. Sono troppo preso da Luigino, ma non da lui particolarmente, ma dai bimbi, dai ragazzi, dai figli senza padre.

Sua madre è ancora una donna piacevole, forse si costruirà una nuova vita, ma anche quando sarà allegra, quando le sembrerà di non respirare per il troppo ridere, dentro, dentro avrà sempre una venatura di tristezza, in fondo agli occhi passerà una lieve ombra, nel cuore una piccola porzione di esso sarà triste. Anche Luigino, crescendo, si godrà la vita, forse sarà più forte degli altri ragazzi, ma sarà sempre più sensibile ed avrà dentro di sé tutte le cose che avrebbe voluto dire a suo padre.

 

 

2

Il mio sguardo accecato segue Lumionas, non posso staccarmi da lei. Mi porterà finalmente, forse, alla fine del mio viaggio.

Troverò il mio destino, insomma, conoscerò la ragione della mia vita. Leggerò cosa è stato di me dall’inizio del mondo e cosa farò fino alla fine di questo. Conosco la mia meta. Dovrò arrivare dove nascono le comete, dove si generano. Capirò il perché della loro coda, delle loro diversità. Conosco il pericolo del mio viaggio.

La mia navicella, una astronave piccola, troppo piccola per un’impresa così, vibra ma non sento rumori. I miei occhi da tempo non si chiudono alla ricerca di un riposo, hanno perduto il tempo, l’alternanza del giorno e della notte. Vivono e basta, guardano, seguono la luce, tutto il mio essere ne è attratto: alla fine dei miei studi, dopo millenni di storia ho scoperto quello che ho scoperto: solo la Luce mi porterà a capire la ragione della vita.

Non ho uno specchio dove vedere un essere umano, tutto mi è precluso. Mi resta solo la fede nella mia missione, nella veridicità ed esattezza dei miei calcoli.

Certo se non fossi solo… forse una compagna, con la quale parlare, scambiare opinioni, speranze… sono solo e posso solo parlare con me stesso e sento che sto diventando parte unica di me, sento la mia anima e i miei pensieri quando nascono, ho scoperto dove partorisco i miei desideri… non conosco più il mio volto. Lo tocco, a volte, come un cieco, guardo la punta del mio naso, le guance e le labbra, se le allungo davanti a me. Sono sempre io, ma sono certo che non mi riconoscerei se mi incontrassi per strada. Le strade del mondo, con la loro polvere, con i loro odori. Anche nel mio viaggio incontro la polvere, quella della coda della cometa, mi giunge un odore forte di carota, mi alimento con bianche pillole che a volte diventano d’oro.

Perché non ho mai pensato ad una donna?

Forse perché non ho pensato ad un figlio? No, ad un figlio ho pensato, come seme per tramandare una parte di me nel futuro, per diventare io stesso, in qualche modo, immortale.

E’ stato un caso arrivare fino a Lumionas, questa cometa che sta tirando dritta verso il sole, seguendo un’orbita ellittica: le sue particelle della coda alimentano la mia navicella. Grande scoperta: potevo riferirla al mondo, diventare ricco, famoso, passare da un premio all’altro, da uno spettacolo all’altro. E poi?

Il successo! Questo è il desiderio dell’uomo e da esso derivano altri surrogati che come droga ti intontiscono e ti fanno credere di stare bene. Il successo! Bastava che io comunicassi la mia scoperta. Ho preferito l’anonimato, tenere tutto per me, sacrificare la mia vita per il totale. La mia vera ricerca è la fonte, il centro del vivere, dove si evolvono i fatti, scaturiti da tempeste di raggi o da radiazioni della fotosfera solare. Ancora non so.

Queste comete, tantissime, hanno una sola orbita. Forse una grande madre le ha generate e le figlie girano sempre sull’orbita originaria. Quando sulla terra calcolavo il tempo vidi che dopo Lumionas sarebbe passata una cometa possibile ancora fra 823 anni. Non potevo perdere l’occasione.

Tutte le comete passano attraverso l’atmosfera solare che si estende fino a Plutone. L’estensione dell’attività solare può essere messa in rapporto con il fatto che le comete diventano attive per il contatto con il vento solare. Se la cometa condiziona la vita dell’uomo ne deriva che è il vento solare ad iniziare il nostro destino. E oltre il Sole?

Non posso arrivare oltre, rischierò di annientarmi con questa cometa suicida. Lumionas non resisterà all’intensa forza di gravità del sole ed è destinata a sciogliersi, magari dando uno spettacolo pirotecnico, quasi un ricordo di se stessa, un ultimo ricordo. Non sarà mai come la cometa Soho! Ed io con questa navicella che sembra un piccolo camioncino rosso e blu, di legno verniciato?

Non posso fermarmi al tramandarsi umano, quello del padre che genera un figlio e questo ancora un figlio?

Mi manca una donna, vorrei parlarne con lei, farmi consolare di tutte le speranze che avevo posto in questa missione e si stanno rivelando vane. Perché solo ora ci penso?

Mi assopisco con l’ansia del dubbio, ma solo attimi per riaprire gli occhi spaventato e ansioso.

Non l’uomo, il suo corpo, la sua macchina perfetta, l’incredibile scienza che l’ha prodotto, non il corpo, i capelli, gli occhi, i suoi piedi. Il meccanismo più prezioso, la mente, ed oltre, l’anima. La sede dei sentimenti, dei pensieri. Perché lasciare che l’anima si esaurisca alla fine del corpo? La mia, così contorta e indagatrice, ma pur sempre unica e meravigliosa nella sua complessità, sarà veramente solo di questo corpo o avrà avuto altri enti materiali da amministrare?

Potrei io essere stato tigre o Alessandro Magno?

 

 

 

 

3

A quel tempo vivevo in Caldea e addirittura qualcuno pensò che io fossi un re. Forse per colpa di un sacchetto di lenticchie bionde che io offrii a Giuseppe, un falegname, perché potesse far mangiare la sua sposa e un piccolo bimbo appena nato. Certo non con le lenticchie, il bimbo appena nato. Luccicavano come oro, quelle lenticchie, ma erano... solo lenticchie. Non so come mai, dopo, coloro che raccontarono, dissero che eravamo in tre e tutti dei re. Non ero solo, avevo dei miei aiutanti, dei miei allievi, anche dei miei colleghi, ma fra questo e dire che eravamo dei re … C’era una gran confusione, quei giorni, intorno alla grotta dove nacque un bimbo da Giuseppe e da Maria. Chi arrivava, chi se ne andava, pastori con gli agnelli al collo, portavano latte appena munto o formaggio fresco, donne, levatrici che aiutavano a far nascere i figli in quel piccolo paese vicino a Gerusalemme. Venivano a sentire la donna, Maria, se stava bene. Che donna quella! Uno splendore nella luce abbagliante della grotta. Era tenera e deliziosa, delicata e altera, vicinissima al figlio e a tutti noi. Eravamo rimasti incantati e la guardavamo in ginocchio, per esserle più vicini, alla sua altezza, sembrava quasi di adorarla. E allo stesso tempo lontana, eterea, una regina, una principessa, una dea. E il neonato che teneva in grembo, muoveva quelle piccole braccia e allargava le sue mani. Strano, non stringeva i pugnetti come tutti i bimbi appena nati, le sue manine, lo ricordo bene, erano spalancate. Anche quando accarezzavano il seno della madre. Ma come mai c’era tutto quel bagliore? Una grande luce, allora, ci aveva condotto fin lì. Forse una cometa, forse pianeti che si trovavano sullo stesso asse. Una gran luce e noi eravamo partiti da giorni e la seguivamo. Dei vecchi parlavano di una profezia di una stella che ci avrebbe condotto dove sarebbe nato un bimbo che sarebbe diventato re.

Ma andiamo per ordine.

Allora scrutavo il cielo di notte e annotavo le collocazioni delle stelle, i suoi gruppi. Di giorno cercavo l’oro e mi dedicavo all’alchimia. Mi era facile studiare cosa dicevano i vecchi saggi. Ero uno che in Babilonia, la mia terra di origine, chiamavano “magoi”. Studiavo astronomia e astrologia, esercitavo la profezia ed ero considerato un indovino. Eravamo certi che il tempo viveva dei cicli e continuamente si rinnovava. Dai tempi antichi tutti erano in attesa di un messia, di un soccorritore divino, se così possiamo definirlo. La mente umana di fronte alle difficoltà invalicabili o di difficile soluzione invocava un Essere che poteva venire solo dal cielo.

Specialmente dopo una fase di decadenza così pronunciata, era vivo in tutti questo desiderio e sempre gli studiosi, i divinatori avevano parlato di una luce che avrebbe indicato l’evento.

Erano tre le figure attese di cui l’ultima, il soccorritore appunto, sarebbe nato da una vergine e avrebbe portato con sé la resurrezione universale e l’immortalità degli esseri umani. Fra le molte leggende che circondavano la figura del Soccorritore c’era anche che una stella lo avrebbe annunciato. Lo diceva Zarathustra seguace del Mazdaismo, ma era morto per morte violenta. Lo dicevano le famiglie giudaiche che vivevano a Babilonia, ma loro parlavano di un altro Messia, ma anche lui sarebbe diventato Re.

Avevo studiato Zarathustra, mi ero convertito alla sua fede, credevo in un unico Dio, avevo iniziato lo studio della medicina e degli astri, lui che cercava di risolvere l’eterna divisione fra la Luce e le Tenebre, fra il bene e il male, riuscendo a farle convivere, una specie di Paradiso Terrestre. Lui aveva introdotto il concetto del Tempo Eterno che si rinnova ciclicamente in attesa di un “soccorritore divino”.

Vivevamo tutti ed io in particolare certi che una notte avremmo visto una stella e che avremmo dovuto seguirla. Da sempre e per tutti i secoli.

Non avevo tempo per farmi una famiglia, i giorni passavano, le donne che dormivano, a volte, nel mio letto, scomparivano o le dimenticavo presto. Tutti mi onoravano perché per il divino, l’occulto, l’astrologia e l’alchimia rinunciavo ai comodi agi della vita terrena. Ma vivevo bene corporalmente, ero sazio di cibo e non mi importava averne di più, non volevo altri agi, un guanciale dove sedermi e un letto dove dormire, pelli di montone calde per coprirmi nelle notti fredde. L’amore non mi aveva mai colpito, sembrava non interessarmi, non mi aveva nemmeno sfiorato. Forse si era dimenticato di me. La mia mente era distratta ed ero fiero di me e dei miei studi.

Ma la notte, ogni tanto volgevo lo sguardo nel cielo a tutto tondo e se una luce mi sembrava più forte del solito, subito stavo in guardia, ma non chiamavo nessuno, spiavo l’evento, avrei voluto essere il primo, l’unico a vedere la stella che mi avrebbe portato a questo soccorritore, a questo re come dicevano gli ebrei.

Gli anni passavano e i miei occhi erano sempre più stanchi. Tutte le stelle mi sembrava non avessero più la luce della giovinezza. Della mia giovinezza, certo, non quella delle stelle. Avevo disegnato il cielo delle varie unioni di stelle, ne seguivo le traiettorie e le evoluzioni. Ero felice delle mie profezie, ma avevo dentro la sete di un avvenimento che forse, non sarebbe toccato a me, che non avrebbe toccato la mia vita. Riuscivo a calcolare le traiettorie degli astri e il ritorno delle comete.

Serse, il mio vecchio assistente e maestro morì piangendo la sua sventura di non essere presente alla venuta della stella. Mi disse una cosa bellissima. “Spero che tu abbia la fortuna che io non ho avuto. Tu, che io ho considerato sempre mio figlio, un figlio prediletto, al quale ho confidato tutto il mio sapere, tutte le mie intuizioni”. Figlio. Questa parola risuonava in me come un suono nuovo. Eppure io ero nato, dunque avevo un padre, una madre e dunque ero un figlio. Ma di questo non mi ero mai occupato. Ormai coloro che mi avevano generato erano morti e tutto mi era sembrato così normale: non mi ero mai considerato un figlio e non avevo mai pensato di diventare un padre. Quando una donna metteva al mondo un piccolo essere urlante era per me un fatto naturale come mangiare, dormire, sbadigliare.

Non avevo mai pensato al miracolo della nascita, del tramandare, del lasciare una parte del tuo sangue e, poi, del tuo sapere, del tuo carattere, del tuo cervello, del tuo modo di camminare o di pensare in qualcuno che sarebbe rimasto dopo di te su questa terra.

Ero troppo geloso del mio sapere, ero egoisticamente sospettoso, chiuso agli altri, non avevo pensato nemmeno a quello che poteva essere “mio figlio”.

Sognavo di questo una notte di veglia mancata. Mancata perché piano piano scivolai nel sonno, gli occhi mi si velarono e passai dalla realtà ai desideri sotto forma di sogno. Avevo un figlio, un mio figlio, per mano, era bello, ero io da piccolo, ma molto più bello, aveva i miei occhi, ma nuovi e brillanti, aveva la mia bocca ma con tutti i denti, aveva il mio sorriso ma splendente di gioventù. Camminavamo ed io gli parlavo di tante cose, dei miei segreti e mi sorprendevo perché vedevo nei suoi occhi blu con lampi d’oro che già sapeva quello che gli dicevo. E siccome il mio volto doveva sembrare sorpreso, lui mi disse “Padre io tutto questo l’ho assimilato da te, ascoltavo la nostra unione, non importavano parole fra noi”.

Fu allora che per la gioia e per la fretta di avere una conferma uscii dal sonno e sentii su di me il freddo dell’alba, mi si aprirono gli occhi e mi si richiusero per la troppa luce. Mi voltai e guardai da dove veniva la luce, un astro, grandissimo, stava andando verso occidente, una coda celeste di luce lo seguiva, ma da dove veniva?

Mi alzai sbalordito e da scienziato mi chiesi quando poteva essere apparsa, che velocità potesse avere. Fin da subito mi accorsi che quella luce, quella stella, fosse o non fosse una cometa, non l’avevamo prevista. Possibile che potesse apparire in poche ore nel cielo e già fuggire verso occidente?

Lasciai a dopo le mie domande. Corsi a perdifiato nella mia dimora, i cammelli furono portati dal servitore, mettemmo dei fardelli, delle ceste e dentro strumenti, abiti, coperte, tanta roba, forse sarebbe stata inutile, un po’ di cibo, le lenticchie, proprio le lenticchie bionde. I cammelli scalpitavano, i servi stavano diventando impazienti dopo i primi sbadigli di fastidio per il resto della notte perduta. Ma l’avventura stava entrando dentro il loro sangue. Nel mio era un fiume in piena.

Finalmente fummo pronti all’alba e partimmo dietro quella luce che stava scomparendo all’orizzonte, disturbata dal sole che stava sorgendo dietro alle mie spalle.

Corremmo in quella direzione tutto il giorno, solo piccole soste per mangiare noi e i cammelli, ma non avevamo fame, la frenesia e la curiosità ci spingeva avanti.

E subito fu notte e la grande luce riapparve, correggemmo la nostra direzione per poter seguire la sua traiettoria, feci dei calcoli, sembrava dirigersi verso Gerusalemme, ma saremmo riusciti a seguirla? A volte sembrava andare velocissima, a volte sembrava aspettarci.

Ero certissimo di essere in presenza del Fatto annunciato. Non avevo dubbi, un tremore mi agitava per la paura di perdere l’occasione tanto attesa. Passarono giorni e passarono notti, la Luce era sempre per scappare all’orizzonte verso occidente e noi sempre al suo inseguimento. Più la seguivo, la vedevo, la studiavo e più mi rendevo conto che non rispondeva alle mie previsioni, alle mie conoscenze. Non era una cometa, troppo grande la sua luce, troppo corta la sua coda. Ma avrei avuto modo di studiare tutto questo, prendevo appunti.

Dopo diversi giorni salimmo a Gerusalemme, la città delle dodici tribù di Israele, cercavamo un ricovero dove far riposare la nostra piccola carovana, eravamo stanchi, la Luce poi sembrava attenderci, non correva più così velocemente, riuscivamo a starle vicino, la sera ce la trovavamo davanti. Entrammo da una delle tre porte di oriente e ci trovammo nei vicoli bui così stretti che facevano paura, il loro continuo cambiare direzione, le ombre nere che sembravano furfanti e i furfanti che passavano come ombre nere. Molti si sdraiavano in qualche vicolo che slargava. I miei cammelli erano troppo ingombranti, chiedemmo dove trovare un caravanserraglio, vi andammo, nel fetore degli animali e degli uomini.  Dovemmo accettare il ricovero, eravamo troppo stanchi, non potevamo andarcene per gli spazi aperti e deserti in balia dei malandrini, i cammelli erano troppo importanti per noi, il cibo acquistato, i miei strumenti.

Non contenevano questi recinti altri animali o uomini, solo incoscienti o derelitti, ladri o manigoldi. Domandai ad un vecchio che sembrava un vate, tanto i suoi occhi chiari brillavano, se qualche cosa era stata detta al Tempio, se pensavano che i Tempi stessero per compiersi. Mi rispose con vane parole che avrebbero potuto darmi una certezza e allo stesso tempo negarmi.

Più tardi mi diressi in una bottega dove si poteva mangiare e bere. Alcuni uomini mi videro arrivare e i loro occhi mi dissero che si stavano meravigliando dei miei vestiti, dei miei lunghi mantelli, della stoffa con i quali erano cuciti. Avevano capito che io venivo da lontano e volevano sapere. Volevano sapere qual era il motivo della mia venuta. Dissi loro di essere solo di passaggio, di aver cercato rifugio, ma sarei partito la sera. Non volevo parlare loro della mia scoperta, ma ero anche così pieno di novità e di soddisfazione della mia previsione che mi sembrava impellente cercare dei riscontri alle mie certezze.

“Stavo sognando di un figlio, un figlio mio, al quale non avevo mai pensato e svegliandomi ho visto una luce e mi sono messa a seguirla.”

Sorridevano come davanti alle parole di uno sciocco:

“Io sono un magoi, riesco a prevedere le eclissi, a calcolare le parabole ellittiche delle comete. Non sono un religioso ma so che la vostra religione, vi ha posto in attesa di un evento, di una nascita di un figlio che diventerà Re”.

Mi dissero che i Vecchi Libri parlavano di questo, ma dissero anche che dicevano tante cose quei libri. Se ne andarono ridendo fra loro.

Tornarono al caravanserraglio e sentivo che mi cercavano, con loro un servitore del Re Erode. Mi interrogò ed io mi sentivo fiero delle mie profezie, sicuro, e mi davo un gran da fare. Lui annuiva. Mi domandava spesso: “Sei sicuro che questa luce ci porterà un nuovo re?” E io riprendevo con le spiegazioni con più lena.

“Ascolta straniero, tu sei un magoi, ed io ti credo, anche Re Erode ti crede, vai dietro alla tua Luce, ma ricordati, se la Luce si fermerà e tu vedrai il nuovo Re, di tornare velocemente verso Gerusalemme, di venire alla corte di Re Erode e di riferire a lui tutto quanto. Erode è un gran sovrano e non vuol perdere l’occasione di tributare a questo nuovo Re gli onori che si merita. Ricordalo”.

Partimmo la sera verso la Luce, sembrava essersi fermata in una vallata, in un posto quasi isolato, ma ero convinto che avrebbe ricominciato a galoppare nei cieli: Gerusalemme sarebbe stato il luogo perfetto per l’evento annunciato, la luce l’averla sorpassata, voleva dire che avrebbe continuato un viaggio che non si poteva prevedere perché città così non ce n’erano nelle vicinanze.

I cammelli guardavano avanti, con i loro occhi dalle lunghe ciglia, con le narici che fremevano, erano tesi, ma procedevano con prudenza. I servitori sembravano aver ritrovato nuove forze. Io avevo la pelle che non mi conteneva. Inoltre avevo davanti a me la visione del mio figlio del sogno. Avevo già fatto dei progetti senza saperlo: erano già nati dentro di me e d’improvviso mi si rivelarono. Tornando alla mia dimora avrei trovato una donna e avrei voluto da lei un figlio, un figlio che mi somigliasse, un figlio che fosse io da piccolo.

Era passato poco tempo e dalla strada maestra sembrava che la Luce ci indicasse di lasciarla, di prendere attraverso campi deserti, fra ulivi secolari, dal tronco nodoso, ma noi continuammo per la strada, pensavamo ad una curva, un’ansa, un ritornare, ma visto che perdevamo la direzione indicata dalla stella, tornammo sui nostri passi e ci dirigemmo verso un piccolo colle.

La Luce era diventata abbagliante, dovevamo mettere una mano davanti ai nostri occhi per poter vedere dove mettevamo i piedi, i cammelli alzavano la loro testa e l’abbassavano sul collo in un movimento strano. Ci rendevamo conto di essere di fronte ad un avvenimento straordinario, la stella non era più nel cielo che era diventato nero e punteggiato da piccoli lumi lontani, ma noi non li vedevamo, accecati come eravamo.

Il nostro stupore era massimo perché quella gran Luce sembrava uscire da sotto terra, fra gli ulivi, di là dagli alberi. Un’ombra venne verso di noi, correndo, ci spaventammo e gridammo chi va là, ma l’uomo, perché l’ombra si materializzò in uomo, si fermò e ci disse cose che non capimmo. E fuggì. Rimanemmo incerti fra andare, restare o scappare.

Terminato lo scalpiccio dei nostri piedi, degli animali e dell’uomo che fuggiva, ci sembrò sentire un coro di belati come di mille agnelli, ma così soave e tenero e delicato da poter testimoniare di non aver mai ascoltato musica più bella. Questo suono sembrava chiamarci. Legammo i cammelli e gli altri animali dove trovammo appigli e io ed i miei uomini ci avvicinammo alla Luce. Fu così che vedemmo che essa veniva da una apertura del terreno, una grotta, uno dei tanti luoghi dove i pastori portavano le  loro greggi.

Infatti diversi pastori se ne stavano seduti o sdraiati verso l’entrata e vedendoci arrivare si alzarono e ci vennero incontro per annunciarci la notizia.

Entrammo timidi e nell’antro trovammo, fra un gregge di pecore, un pagliericcio ricavato con fieno e paglia, e accovacciata una donna; davanti a sé teneva in una cesta un bambino avvolto alla meglio in panni e appariva essere nato da pochissime ore. La donna ergeva la testa in modo fiero, ma allo stesso tempo era timida, altera e umile allo stesso tempo, i suoi riccioli neri le incorniciavano la fronte, sulla testa un lungo velo, aveva le mani giunte e sembrava pregare, il suo era un sorriso che non aveva niente a che fare con tutti i sorrisi che avevo visto fino a quel giorno. Mi stropicciai gli occhi: si stavano abituando alla luce o forse era la luce che non aveva più l’intensità di prima.

Mi sembrò normale allora che la Luce che io seguivo fosse entrata in una grotta e che ora, che io ero arrivato al fine del mio viaggio, finito il suo compito, si smorzasse. Ero già ammalato di fede, vacillava in me la certezza matematica, la logica, il pensiero, i calcoli, le ellissi e le traiettorie celesti. Tutto l’evento chiamava alla fede, non alla scienza.

Guardai il bimbo, sembrava io da piccolo, ma poteva sembrare tutto il mondo, tutti gli uomini e le donne, tutto il creato, c’era tutto in lui.

Mi inginocchiai senza volerlo e chinai il capo. I miei uomini fecero altrettanto. Il bimbo sembrava guardarmi ed io trovai la certezza che ancora di più avrei voluto un figlio, che mi dovevo affrettare a tornare nella mia terra.

Si avvicinò un uomo di nome Giuseppe, una gran barba, un bastone nodoso al quale si appoggiava, ci disse di Maria e del bimbo nato, che lo avrebbe chiamato Gesù. Ci disse del viaggio che aveva intrapreso, ci raccontò tutto, del censimento di Quirino. I pastori intorno annuivano. La donna ogni tanto amorevolmente prendeva il suo piccolo e lo avvicinava al suo volto. Non avevo mai visto niente di più intimo e di più amorevole, le piccole manine spalancate che la accarezzavano.

Restammo anche il giorno dopo e parlammo con una donna che ci raccontò meraviglie sulla nascita del bimbo, i pastori annuivano e qualcuno con il flauto dolce suonava delicate melodie accompagnando il belato degli agnelli.

Giunsero altri magoi nella notte, chi giunto dalla Mesopotamia, dalla Media, chi vecchio appena si reggeva sulla sella del cammello, chi più giovane aveva negli occhi l’irruenza non ancora addolcita da anni passati a scrutare il cielo. Tutti spontaneamente prendemmo qualcosa dai nostri bagagli volendo lasciare un segno tangibile della nostra venuta, io presi un sacchetto di bionde lenticchie. Parlammo delle profezie, dei libri antichi, di quello che sarebbe diventato quel bimbo.

Parlai anche di Erode. Ma mentre raccontavo mi rendevo conto che non sarei dovuto tornare da lui, che forse era meglio tornare alla mia casa senza passare da Gerusalemme, non avevo nemmeno voglia di dire quelle cose che avevo visto, avevo bisogno di sentirle dentro, di leggere tutto quello che mi era successo con gli occhi del vivere di tutti i giorni, nella realtà della mia casa, del mio paese, di capire, di tradurre un fatto miracoloso in cosa ragionevole. Avvicinare la fede alla scienza.

Vegliai ancora la donna e il bambino, salutai Giuseppe. D’improvviso, come un colpo di vento, giunsero degli uomini che subito si rivolsero a Giuseppe: “Fuggite, fuggite, il Re Erode ha dato ordine di uccidere tutti i bambini nati nell’ultima settimana, Gerusalemme è un luogo di pianto e di dolore, il sangue innocente scorre in città, fuggite, fuggite prima che giungano fino a qui”.

Con i miei uomini, quasi di fretta, quasi impaurito dalle conseguenze che sarebbero venute dal fatto che potevo testimoniare, partii. Bambini tolti ai loro padri, uccisi, per paura di perdere il regno. Come urleranno gli sventurati, quale donna potrà sopportare un dolore così alto, quale padre potrà dimenticare suo figlio?

Camminammo una notte e un giorno nel mondo che sembrava ignaro di ciò che era accaduto, guardandoci alle spalle per paura che gli uomini di Erode ci seguissero, ci chiedessero di rendere loro conto. Ero sdegnato e distrutto ma avevo fede: la scrittura sarebbe stata rispettata, non poteva intervenire nessuna mano dell’uomo a modificarne il corso.

A sera, stanchi, ci fermammo in un ovile che sembrava abbandonato. Dopo aver sistemato gli animali, cercammo un luogo dove posare i nostri corpi. Trovai un angolo angusto, che sembrava sicuro, mi addormentai e subito iniziai a sognare.

 

 

 

 

 

4

“Ehi! barbone, ti sembra il posto adatto per smaltire la tua sbornia? e lascia spazio a chi ha un cuore e viene a pregare il nostro Signore, vattene in qualche bettola o sotto un ponte!”

L’uomo chiamato barbone, ancora stranito e sbigottito cercava di aprire gli occhi oltre a quella che a lui sembrava un’apparenza. L’odore di incenso che era rimasto nelle navate, mescolato a quello di muffa, lo convinse che veramente si trovava in una chiesa. Nella penombra vide le fioche luci del presepe, la capanna (perché in quel presepe il Bambino stava in una mangiatoia, una grotta e tanta paglia, un ricovero per le pecore) aveva una calda atmosfera, di pace e il viso della Madonna era sereno ed estasiato. Giuseppe guardava in giro guardingo, mescolando, ogni tanto, uno sguardo tenero al Bambino.

Si sentì derelitto ma non straniero in quella chiesa, non sapeva cosa fare, come muoversi, dove andare. Perché gli avevano impedito di continuare a sognare nei cieli dietro inutili comete piene di luce?

Una donna si era materializzata nel buio di un angolo della chiesa. Il suo passo era leggero, aveva un personale semplice, una eleganza rara, il portamento sapeva di regina, i capelli erano legati, forse, in un nodo dietro la nuca. Il sorriso di lei era come una rosa di maggio.

Il pio uomo che voleva il presepe libero perché i fedeli si abbeverassero della fede, sembrò non vederla, tanto era indaffarato a togliere ogni traccia del barbone, muoveva perfino le braccia alle cui estremità le mani erano stese, larghe, pale da fornaio, quasi a voler muovere più aria nello scacciare quello che lui pensava fosse cattivo odore.

“Fuori, fuori, vattene” continuava a dire l’uomo oltremodo pio.

Il barbone era ancora indeciso, forse stava ancora sognando, non era ancora sveglio del tutto e non riusciva a capire come dalle stelle fosse capitato in quel posto. Solo il vedere il presepe gli dava un senso di familiarità.

La donna lo prese per mano. Lui sentì solo allora di aver finito un lungo viaggio e si affidò a lei, ma sentiva di essere libero di muoversi, non era come un bambino tenuto per mano. Non era invitato o costretto ad andare in qualche direzione anche se la donna gli disse “Vieni”.

E poi “Come ti chiami?” chiese.

“Non lo ricordo” rispose lui.

“Ti chiamerò Baltazar”.

“Hai tu la luce?”

“La luce è dentro di te. Hai bisogno solo di silenzio e di qualcuno che ti indichi la strada fra quelle che conosci già”

Uscirono dalla porta che appena si mosse, quasi per un leggero vento, e affrontarono la buia e fredda notte.

Non sappiamo cosa sia avvenuto di loro. Qualcuno dice di averli incontrati, stranamente tutti dicono di sera. Un bimbo era con loro.

Appaiono all’improvviso sorridenti, e se ne vanno tenendosi per mano. Sembrano rivestiti di luce.

 

 

Genn 2010